Intervento di Rino Cammilleri alla presentazione del libro L’abito ecclesiastico: sua valenza e storia, edito dalle Edizioni Carismatici FrancescaniMilano, 20 maggio 2005 - Sala della Provincia "Nuovo Spazio Guicciardini"Viviamo in un'epoca in cui qualsiasi gruppo etnico, qualsiasi minoranza, anche la più piccola, rivendica la propria identità e cerca di esporla (mi si passi l'esempio, per piacere: avete visto il famoso gay pride: come sono vestiti - o svestiti - quelli di questa minoranza che in un qualche modo propugna la propria identità. E la parola che viene usata è proprio pride, orgoglio). Ci sono persone che fanno battaglie legali per avere il diritto di mettersi il burqua quando vanno a scuola. Anche le commesse del Mc Donald hanno una divisa. Per non parlare delle categorie professionali classiche: i medici, gli infermieri, i volontari dell'ambulanza, i magistrati (francamente essere condannato a qualsiasi pena da un giudice in jeans e maglietta con l'effige di Che Guevara mi darebbe fastidio. Se non altro salviamo le forme: la maestà della legge e della giustizia la voglio vedere con gli occhi). Tutti quanti, insomma, cercano con un segno esterno di essere identificabili. Viviamo nella società dell'immagine: oggi l'immagine è tutto. Il defunto Pontefice Giovanni Paolo II il Grande è grazie all'immagine che è riuscito a "prendere" la gente, i ragazzi (io mi ricordo quando, nel 1978, la Chiesa in termini di credibilità e di autorevolezza era quasi zero. Lui è riuscito a portarla dove tutti abbiamo potuto constatare). Abbiamo visto i suoi funerali, storici funerali: storici non solo come numero di presenti, ma storici per quelli che c'erano, perché quelli che non c'erano si sono scusati di non esserci (i talebani hanno dovuto mandare un messaggio). Gli Stati Uniti non hanno mai avuto relazioni con il Vaticano per gli ovvi motivi storici, massonici e protestanti che conosciamo. Reagan è il primo che ha creato un'ambasciata vera e propria presso il Vaticano. Ebbene: c'erano tre presidenti inginocchiati; ce ne sarebbero stati anche cinque se Reagan non fosse morto e Carter non fosse stato troppo vecchio e malandato. E tutto questo è successo perché il Pontefice mediatico ha perfettamente capito che oggi è poco utile affidarsi ai mezzi classici: la carta, il discorso, la stampa, il convegno, la tavola rotonda, eccetera. Quello che conta nel mondo moderno è l'immagine. Gli unici che in quest’epoca non tengono proprio alla loro immagine sono gli uomini di religione, gli uomini del clero. Il tema è increscioso, il tema è scabroso. Ma come sapete, per chi mi conosce, questo è per me come il miele sul biscotto. Mi rendo perfettamente conto della situazione. Conoscendo la storia, noi sappiamo che in tempi di ghigliottina era consigliabile travestirsi, togliersi il segno esterno che indicava come cattolico, o come religioso o come sacerdote, per scansare l’esecuzione capitale. Ma oggi come oggi non si rischia la pelle. Si rischiano i fastidi. Per esempio passi da una strada in cui ci sono giovinastri ideologicamente orientati che ti dileggiano, o ti tirano le monetine: è il massimo che possono fare. Oppure puoi essere assillato da mendicanti particolarmente petulanti. Puoi essere assillato da qualche psicolabile. Tutte cose che vanno sotto la voce “fastidi”. La mia domanda al clero che non si mette la tonaca è: se temevi tanto i fastidi, perché ti sei fatto prete? D'altronde sembra veramente pleonastico e quasi inutile dire quello che tutti sanno, e lo sanno anche quelli che l'abito non se lo mettono: l’abito ecclesiastico è una predicazione muta. Ed è una predicazione muta in un tempo di segni, in un tempo affamato proprio di segni. Faccio un esempio: quando passo per una strada di Milano, nottetempo, se ci sono due poliziotti che passeggiano dall'altro lato della strada io sono molto più tranquillo. Perché quel segno mi tranquillizza: il segno serve proprio a tranquillizzare gli onesti e a diffidare i male intenzionati. Se non fossero in divisa, avremmo paura tutti quanti. Si può sostenere che il poliziotto non in divisa si traveste per esercitare meglio la sua attività, ma questo non vale per il prete: perché il poliziotto deve andare dai cattivi, invece il sacerdote religioso deve andare dai buoni e dovrebbe avere tutto l'interesse a farsi riconoscere. Non insisto su questo perché, come potete vedere dai segnalibro, il libro di Don De Santi è talmente pieno di suggestioni che è inutile che io mi dilunghi. Vi consiglio di leggerlo perché c'è veramente tutto. Posso fare qualche commento complessivo. Mi rendo conto che in effetti è più comodo in un'epoca in cui il cattolicesimo non è che sia particolarmente à la page o in voga, avere un certo imbarazzo, una certa esitazione, un certo timore nel manifestare la propria appartenenza al clero. Ma sono timorucci umani. Io non sono prete e non li ho: sapete cosa scrivo, cosa vado dicendo; non me lo ha ordinato il medico di farlo, non ho nemmeno il carisma che deriva dall'ordinazione sacerdotale. Penso che è abbastanza triste che debbano essere proprio i laici che debbano tirare i preti non per la tonaca ma per i jeans, per dire loro: cercate di rendervi visibili. Ai miei tempi, mi ricordo, quando uno buttava la tonaca alle ortiche si diceva: quello si è spogliato, non è più prete. Oggi invece quando uno è prete si mette la giacca e la cravatta, quando non è più prete si veste. È paradossale che a parte il qui presente [don De Santi], oggidì siano proprio i sospesi a divinis quelli che sembrano tenerci di più all'abito. Quelli che praticamente per coerenza dovrebbero levarselo, invece ci tengono; quelli in regola si mettono in borghese, “così sono come gli altri”. Non chiedono mai agli altri come vorrebbero che fossero: non è molto democratico non fare un referendum per chiedere alla gente come volete che sia il prete. È vero il contrario di quello che credono: il popolo non vuole che il prete sia come gli altri, ma diverso dagli altri, perché un punto di riferimento deve essere diverso per forza. Immaginate una boa che è dipinta con trompe-l'oeil come le onde: annego. Deve essere bella rossa, perché mi ci devo aggrappare. Padre Pio, su cui ho scritto una biografia, quando già all'epoca del post-Concilio Vaticano II alcuni giovani novizi dei Cappuccini manifestavano qualche disagio nel mettersi il saio, diceva: «Cacciateli immediatamente. Ecché?Sono forse loro a fare un piacere a San Francesco?». Pio XII, grande Papa, grandissimo Papa (è sempre stato un po' un mio autore de chevet), aveva il "vizio" di andare a parlare ai congressi più improbabili: di cardiologi, eccetera. A uno dei congressi degli operatori della moda, lui esordì con una frase che dovrei tenerla appesa nel mio studio, talmente è profonda nella sua icasticità: «Da come uno si veste, si capisce che cosa sogna». L'abito non fa il monaco, dicevano nel Medioevo. Perché nel Medioevo c'erano le Università, che essendo corpi ecclesiastici, obbligavano gli studenti a portare l'abito ecclesiastico e la tonsura. È vero che l'abito non fa il monaco, ma un buon monaco se lo mette, anche perché non avrebbe nessun motivo per toglierselo. Questa considerazione sarebbe veramente da meditare, perché il problema dell'ostilità odierna all'abito è indubbiamente di natura psicologica. C'è questo sordo muro di gomma, una resistenza passiva che l'ex Cardinale Ratzinger, attualmente papa Benedetto XVI, conosce perfettamente. Non vorrei essere nei suoi panni, perché non so come possa risolvere questa questione. Anche perché grazie al cielo la Chiesa non ha una polizia interna che può imporre ai suoi uomini di eseguire per forza le sue disposizioni: si limita a raccomandare e poi si vede. La logica è dalla nostra parte. La cosa che fa di me un "conservatore" (adopero questo termine tanto per farmi intendere) è che uso la logica e chiedo la coerenza. E' inutile andare ad iscriversi al club del bridge e quando sono là dentro pretendere di giocare a scopone perché le regole non mi piacciono. Nessuno mi ha chiesto di iscrivermi; se mi piace è così, se non mi piace me ne vado. Questa semplice norma di logica non l'adotta nessuno, soprattutto non la usa i cosiddetti dissenzienti che sono all'interno della Chiesa, che visto che l'Inquisizione non c'è più, usano il sistema della resistenza passiva, dell'orecchio da "mercante", del “faccio quel che mi pare”. E' molto triste, e ci vorrà molto tempo, ma penso che in qualche modo qualche cosa verrà fatta. Guardando a questo Papa e sapendo chi era, molti temevano una restaurazione. Questo è interessante, perché quando si teme la restaurazione, vuol dire che si ama la rivoluzione. E’ una constatazione che fa capire come stanno le cose. Io non solo non temo la restaurazione, ma la auspico: perché "restauro", da vocabolario, è prendere un capolavoro distrutto dal tempo e dalla stupidità e riportarlo al suo antico splendore. Anche perché il discorso dell'abito che non fa il monaco, è una cosa che ha a che fare con l'eresia. Nel Medioevo c'erano i famosi Fratelli del Libero Spirito, detti anche turlupins (da cui turlupinare), che erano degli eretici. Si consideravano al di sopra del peccato (erano perseguitati da tutti, anche dai protestanti e calvinisti: Calvino scrisse un trattato contro di loro). Essendo convinti di essere al di sopra del peccato, si permettevano qualsiasi tipo di nefandezza. Un sistema che usavano era proprio quello del cambiare abito. Nel Medioevo non essendoci le tessere e le card, l'abito era quello che faceva il monaco, tranne, come abbiamo detto, all'interno delle università. (nei quadri Dante Alighieri è vestito di rosso, perché faceva parte della Corporazione degli speziali: se voleva essere riconosciuto come tale, e quindi avere tutte le garanzie e i privilegi che la Corporazione garantiva agli appartenenti, doveva dimostrarsi tale). I turlupins erano gli unici che non avevano un abito che li contraddistinguesse. A volte vestivano sfarzosamente, a volte di stracci, a volte da mendicanti, a volte con l'abito di una certa Corporazione a cui non appartenevano. Per questo turlupinavano. Lo facevano per un motivo religioso, per un motivo eretico. Stiamo ora assistendo ad un'eresia strisciante, che nessuno osa più chiamare col suo nome; eresia dai mille volti. Non avendoci un eresiarca, non essendoci un trattato, non ha contorni nitidi, ma si manifesta in questi comportamenti alla “fai da te”. L'eresia dei nostri tempi è questo demi-christianisme, molto “fai da te”, con dentro tutto quello che uno vuole. L'attuale problema, credo sia chiaro al nostro Pontefice (tant'è che sono assolutamente convinto che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si siano passati il testimone: Dio ha fatto fare l'esterno per la Chiesa a Giovanni Paolo II, adesso fa scavare l'interno a Benedetto XVI) è questo: viviamo una crisi di fede. Per concludere. Quando si cominciano a tirare fuori tutte le eccezioni (e noi sappiamo, come dice il Vangelo, che se uno non è fedele nel poco non può essere fedele nel molto): prima l'abito, poi prego un po' di meno perché "ho da fare", poi l'accoglienza è molto meglio della lettura, la solidarietà è molto meglio della meditazione, alla fine non rimane più niente. Poco alla volta, tu non ti sei nemmeno accorto di come hai fatto a perdere la tua quintessenza, pur avendo cominciato con tanto entusiasmo il giorno in cui sei stato ordinato. >ordina il libro |